Lunedì, 04 Aprile 2011 18:14

Le tragedie e le parole da misurare

Scritto da  Gerardo

Ci volevano quei morti, quel bambino annegato con altri dieci poveretti nelle acque del canale di Sicilia per ricordarci che la fuga dall'Africa non è « solo » un problema nostro? Il naufragio di quel gommone carico di disperati, l'ennesima « carretta del mare » affondata nel Mediterraneo, è un monito angosciante. (continua)
Bel seguito, il bell'articolo di Gian Antonio Stella.



Le tragedie e le parole da misurare
di Gian Antonio Stella
in “Corriere della Sera” del 31 marzo 2011

Ci volevano quei morti, quel bambino annegato con altri dieci poveretti nelle acque del canale di Sicilia per ricordarci che la fuga dall'Africa non è « solo » un problema nostro? Il naufragio di quel gommone carico di disperati, l'ennesima « carretta del mare » affondata nel Mediterraneo, è un monito angosciante.
Per tutti noi ma soprattutto per chi in questi giorni ha dato l’idea di curarsi esclusivamente dei guai interni creati dall’ondata di immigrati, dei rapporti con l’Europa che se ne lava le mani, dei rischi politici ed elettorali, della necessità di distinguere tra profughi e i clandestini. C’erano eritrei e nigeriani, par di capire, su quel gommone. Cercavano di venire qui perché fuggivano «solo» dalla fame o anche, viste le tensioni etniche e le guerre tribali e religiose che sconvolgono i loro Paesi, dalle persecuzioni politiche? Erano profughi da accogliere (sia pure di malavoglia) o clandestini da ributtare sbrigativamente sulla loro sponda? Certo, non possiamo accoglierli tutti. Lo scrive nel libro «Ero straniero e mi avete ospitato», col dolore di chi vorrebbe poter fare di più, anche un uomo santo come padre Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose: «Occorre riconoscere che esistono dei limiti nell’accoglienza: non i limiti dettati dall’egoismo di chi si asserraglia nel proprio benessere e chiude gli occhi e il cuore davanti al proprio simile che soffre, ma i limiti imposti da una reale capacità di fare spazio agli altri, limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà, ma pur sempre limiti». In astratto c’è chi dirà che non è giusto. Che ogni uomo ha diritto a emigrare, sognare, cercarsi un suo angolo del mondo, partire per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni che se ne andarono da un Veneto poverissimo diretti in America, in Brasile o in Transilvania «a menar la carioleta /ché l’Italia povareta /no’ l’ha bezzi da pagar». Forse cristianamente occorrerebbe aggiungere la parola «purtroppo»: non possiamo accoglierli tutti, purtroppo. Ma così è: non possiamo. Come scrive padre Bianchi, «siamo consapevoli (..) che quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane, così come siamo sempre più coscienti della radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte a Dio e dell’universalità dei loro diritti, ma questo non significa praticare un’accoglienza passiva, acritica e illimitata degli immigrati». Proprio per questo, però, proprio perché siamo chiamati in questi giorni a prendere decisioni durissime sulla pelle di migliaia di persone che si sono imbarcate inseguendo un sogno come milioni e milioni di italiani di una volta, dobbiamo misurare le parole. Pesarle bene. Per rispetto verso tutti quei nostri emigranti che furono clandestini. Per decenza morale verso chi, come ieri, perde la vita in questi viaggi infernali. Ma più ancora, se volete, per buon senso. Si può gestire un problema come l’emergenza umanitaria di questi giorni, aggravata dalla scelta di tanti Paesi europei di lasciarci soli alle prese con l’ondata, solo se viene messa al bando ogni parola che puzzi anche lontanamente di razzismo. Non abbiamo altra scelta che riportare a casa loro gli immigrati che non hanno diritto allo status di profugo per motivi politici, religiosi, sessuali? Possiamo farlo solo se non aggiungiamo al rifiuto, che già vivono come una ferita, l’insulto, il disprezzo, l’odio.
Messo alle strette, un Paese già in pesanti difficoltà può essere costretto a rimpatriare chi ha cercato di immigrare «solo» per motivi economici? Certo non può chiamarlo «bingo bongo» o «marocchino di merda». Né dirgli «foera di ball». Non solo perché il rapporto dell’Onu sulle migrazioni del 2009 dice che chi lascia oggi il Terzo mondo per venire in Occidente vede in media «un incremento pari a 15 volte nel reddito, un raddoppio dei tassi di iscrizione alle scuole e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile»: cosa che spingerebbe chiunque di noi, al posto loro, con la crisi paurosa che affonda l’Africa abbandonata al suo destino, a tentare l’avventura. Ma perché il dialetto lombardo usato per quella battutaccia è lo stesso dei pavesi che emigrarono nella pampa argentina, dei valtellinesi finiti nel Queensland, dei bresciani vittime con liguri e piemontesi del massacro di Aigues Mortes dov’erano accusati di «rubare il lavoro» ai francesi nelle saline della Camargue, dei bergamaschi finiti addirittura nelle miniere degli inglesi nel Karnataka, nell’India meridionale. L’Italia, si dice, non è un Paese razzista. Certo, abbiamo meno problemi di quanti ne abbiano i Paesi che facevano parte del blocco comunista, dove il crollo della tragica illusione dell’assoluta eguaglianza fra gli uomini è stata seguita da rivendicazioni identitarie spesso dichiaratamente razziste se non addirittura neonaziste. E la stessa Lega Nord guidata dall’autore della spropositata battuta dell’altro ieri può rivendicare di aver dato prova in tante realtà locali, ad esempio Treviso, d’uno spirito di accoglienza e integrazione che contano più di tante sparate xenofobe. Di più: è leghista Sandy Cane (cognome inglese: si pronuncia «kein» ) la quale, a dispetto degli sfoghi dei malpancisti sul forum di radio Padania, è stata eletta a Viggiù primo sindaco italiano di pelle nera, con tanto di fazzolettino verde d’ordinanza. I rigurgiti di odio razzista online, però, ci dicono che dobbiamo stare attenti. Tanto più che veniamo da una storia di orrori. In particolare nei confronti dei libici e degli africani. Ce lo ricordano foto famose e tremende, come quelle dei lager nel deserto della Sirte dove morirono a decine di migliaia vecchi, donne e figlioletti. O quella della fucilazione di un gruppo di civili tra i quali c’era un bambino. Siamo quindi chiamati a maggiori responsabilità. Di più: i problemi crescenti alla frontiera di Ventimiglia, dove la Francia guidata con piglio muscolare dal figlio di un immigrato ungherese respinge bruscamente quanti cercano di entrare, ci ricorda un altro pezzo della nostra storia. Come ha dimostrato definitivamente con migliaia di documenti nel libro «Il cammino della speranza», lo studioso Sandro Rinauro, «gli italiani hanno detenuto a lungo il primato dell’esodo clandestino». Anche in Francia. Un solo esempio: «Secondo il direttore dell’Office national d’immigration Pierre Bideberry tra il 1946 e il 1966 ben il 90 per cento dei familiari degli immigrati italiani era entrato «per migrazione spontanea», ossia non autorizzata. Ed era proprio lì, a Ventimiglia, spiegano la professoressa Simonetta Tombaccini nel saggio «La frontière bafouée» (La frontiera beffata) o i reportage di Tommaso Besozzi, che tanti italiani cercavano di raggiungere illegalmente la Francia. Anche a costo di rischiare la vita al Passo del Diavolo. Come toccò a decine di poveretti volati nel vuoto «come fenicotteri». L’ultimo dei «nostri» a cadere lì, dove in questi giorni si avventurano i maghrebini, si chiamava Mario Trambusti, aveva poco più di vent’anni, veniva da Bagno di Ripoli. Si sfracellò la mattina di Capodanno del 1962.

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